Fondo Giovanni Macchia

Giovanni Macchia

«La mia biblioteca non è un bunker della cultura, una camera blindata che mi protegga e mi impedisca ogni rapporto col mondo. È se mai una finestra aperta sul mondo, sulla vita, sulla storia».

La figura di Giuseppe Garrera è importante anche per il ritrovamento dell’archivio personale dello studioso Giovanni Macchia, uno dei critici letterari italiani più importanti del Novecento, che si occupò di tutti i campi della letteratura, specializzandosi in quella francese, anche se non amava essere chiamato «francesista». Era, inoltre, amante della musica, del teatro e della pittura. 

Giovanni Macchia nacque a Trani il 14 novembre 1912, ma presto si trasferì a Roma per esigenze lavorative del padre. All’università si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia, dove conobbe Pietro Paolo Trompeo, grazie al quale scoprì e si appassionò di Baudelaire, scrivendo una tesi di laurea proprio sul poeta maledetto.

La carriera accademica di Macchia ebbe inizio all’Università di Pisa, dove ottenne la cattedra di Lingua e letteratura francese. Nel 1948 vinse un concorso presso l’Università di Catania, ma nel 1950 ottenne un posto presso la Facoltà di Magistero dell’Università di Roma. Due anni dopo, venne scelto per la direzione dell’Istituto del Teatro dell’Università di Roma, mentre nel 1958 si occupò del corso Storia del Teatro e dello Spettacolo presso la Facoltà di Lettere.

Macchia morì il 30 Settembre 2001, ma nel corso della sua vita partecipò e diede vita ad alcuni circoli letterari, collaborò con numerose riviste e giornali e scrisse molte opere; vinse inoltre alcuni premi, come il premio internazionale Balzan per la Storia e critica della letteratura nel 1992 e il «Grand Prix de la Francophonie» dell’Accademia di Francia nel 2000.

I libri ebbero un ruolo fondamentale nella sua vita e questa sua passione si concretizzò nella nascita di una biblioteca di straordinario valore storico e bibliografico, che oggi prende il suo stesso nome. «Ai primi tempi la ricerca del libro aveva avuto un valore strumentale. Doveva rispondere al mestiere che avevo scelto. Poi la mia ricerca si era allargata. E confesso di avere amato il libro, come un tempo il violino, anche per la sua bellezza. […] Ma la bellezza di un libro non si esaurisce nel gusto di vederlo, di ammirarlo. Racchiude un universo di immagini mentali e fantasmi e pensieri da interrogare pazientemente. Perciò non potevo divenire un bibliofilo.» così scriveva lo studioso nei suoi Frammenti di una autobiografia letteraria.

La preziosa raccolta di libri fu vincolata dallo Stato nel 1979 e poi acquistata dalla Fondazione Roma nel 1993, con la promessa che una volta morto il proprietario sarebbe dovuta passare in donazione alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, dove oggi gli ha riservato una sala dedicata.Incredibilmente, durante lo spostamento della biblioteca dal luogo originario alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (rimase per anni nei magazzini), parte dell’archivio venne disperso. Nel 2011, però, i documenti perduti vennero incredibilmente ritrovati proprio da Giuseppe Garrera presso il mercato di Porta Portese a Roma; si trattava di alcune lettere e manoscritti del critico letterario, che rischiavano di svanire per sempre. Garrera acquistò il materiale, lo ordinò e lo rivendette in blocco alla Biblioteca Nazionale, ricomponendo l’archivio nella sua integrità.

La biblioteca macchiana conta circa 30.000 volumi e documenti, che riflettono la sua attività di critico e i suoi interessi. È possibile ritrovare molti titoli della letteratura francese, dalle opere più antiche, come l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, agli autori più contemporanei. Molti dei suoi libri portano i segni della sua attività di studioso, annotazioni e postille, ma la biblioteca contiene anche molti libri, che riflettono la personalità di Macchia in quanto appassionato lettore: infatti, ci sono sezioni di libri dedicati al teatro, all’arte, alla letteratura italiana e ai classici. 

La biblioteca è anche un’eccezionale collezione, infatti Macchia acquistò numerose prime edizioni e libri antichi o di pregio, attraverso aste e librerie d’antiquariato. Era terribilmente affascinato dai libri antichi tanto che scriveva:

«Il libro antico ha suscitato sempre in me incredibili slanci della fantasia. Il libro antico ha un suo passato, è vissuto in tante case prima di entrare nella nostra, ha visto passare la malinconia di tante giornate, ha partecipato alla vita quotidiana nella solitudine della lettura, si è salvato dai naufragi e dai terremoti. Ci restituisce miracolosamente il senso di un’epoca. E perciò, quando un volume, appartenuto a un grande scrittore, approda chissà dopo quante peripezie a casa nostra, nasce in noi la suggestione che un po’ del calore delle mani che lo hanno sfiorato, e anche un po’ del suo pensiero, si sia depositato su quelle carte ingiallite».

Il critico era molto legato ai suoi libri, soprattutto alla prima edizione della Ursule Mirouet di Balzac e all’edizione del 1869 di Les fleurs du mal; il libro che, però, occupò sempre un posto speciale nel suo cuore fu il primo volume delle Oeuvres di Baudelaire nell’edizione della Pléiade, che Trompeo gli donò dopo la sua morte.

La biblioteca Giovanni Macchia è nata dalla professione e dalla passione di un uomo che amò profondamente la letteratura, e le arti in generale, e l’autenticità della preziosa collezione rischiava di perdersi per sempre, ma grazie all’operazione di Giuseppe Garrera, e al mercato dell’usato, è riuscita a conservarsi nella sua interezza. 


Viaggi sonori: la Strumentoteca d’Arte Musicale

A Lentate sul Seveso, in provincia di Monza e Brianza, c’è un posto in cui sono custoditi migliaia di strumenti musicali provenienti da tutto i mondo e da tutte le epoche: questo luogo è il risultato del lavoro di Nicola Scarano, musicista, compositore e etnomusicologo, che ha dato forma ad una straordinaria collezione privata di strumenti musicali, la più grande d’Europa. La Camera di Commercio di Milano, Monza e Brianza e Lodi ha inserito la Strumentoteca d’Arte Musicale tra le migliori attrazioni turistiche del territorio brianzolo.

Dagli anni Settanta, Nicola e la moglie sono alla ricerca di strumenti musicali, con l’intento di raccogliere e documentare i suoni di ogni paese, di ogni epoca e di ogni cultura in tutte le forme possibili. Ad oggi, la collezione è composta da oltre 11.500 strumenti musicali, che sono esposti al pubblico nell’ex rimessa delle carrozze di Villa Raimondi.

Gli strumenti musicali sono potenti trasmettitori di storia, grazie al loro utilizzo, la loro provenienza e il loro ruolo all’interno dei costumi e delle usanze delle varie società. Visitare il museo è un po’ come entrare su un aereo che ti porta in giro per il mondo, perché ogni oggetto sonoro è il risultato di espressioni artistiche diverse, sia dal punto di vista estetico attraverso la forma, le decorazioni, gli intarsi sia attraverso i suoni che emettono. L’unicità di questo luogo dipende soprattuto dal fatto che il proprietario non tiene i suoi strumenti in una teca per non essere toccati, ma sono esposti con lo scopo di essere suonati: infatti, Nicola accoglie i propri visitatori-ospiti con disponibilità e calore, e realizza esecuzioni musicali su richiesta di chi fosse interessato ad ascoltare il suono di un particolare oggetto. L’obiettivo è, infatti, quello di rendere vivo lo strumento musicale e rendere unica e coinvolgente l’esperienza della visita.

L’uomo ha recuperato gli strumenti durante i suoi viaggi per il mondo, comprandoli in negozi musicali specializzati, sia nuovi che di seconda mano, ma anche trovandoli in giro. Sono custoditi strumenti musicali di tutti i tipi e generi, da quelli della tradizione lombarda ai tamburi africani e corni delle malghe alpine. Ogni singolo strumento ha una propria anima capace di raccontare, o meglio cantare, una storia precisa fatta di tradizioni locali e saperi radicati. Inoltre, l’appassionato collezionista non si considera proprietario dei suoi strumenti, ma per lui sono «prestiti per portare avanti la pittura». La collezione è tuttora in costante aggiornamento, perché la fame di Nicola di scoprire sempre nuovi suoni e di conoscere diverse culture popolari è pungente ed incessante. La Strumentoteca è, dunque, una ricerca infinita, un luogo magico che ci permette non solo di vedere, ma anche di ascoltare le culture del mondo, passate e presenti: un viaggio nello spazio e nel tempo, alle porte di Milano.


Fondazione Museo Ettore Guatelli

Ettore Guatelli

Quella di Ettore Guatelli è la storia singolare di un uomo innamorato delle proprie origini contadine, che ha voluto preservare dall’oblio che lo scorrere del tempo implica, fondando un museo.

Ettore nacque il 18 aprile del 1921 a Collecchio, un paesino nella campagna parmense, in una famiglia contadina originaria di Ozzano Taro, in provincia di Parma. Fin da piccolo fu afflitto da problemi di salute, che lo tormentarono per tutta la vita, ma che non gli impedirono di arruolarsi nel 1942 alla leva dell’esercito, da cui poi disertò per passare al movimento antifascista.

L’incontro con il poeta Attilio Bertolucci segnò fortemente la sua formazione e gli permise, grazie al suo aiuto, di conseguire il diploma magistrale. Negli anni Cinquanta intraprese la carriera politica diventando consigliere comunale del proprio paese e poi segretario dei deputati. In questo periodo iniziò a frequentare alcuni circoli di letterati e intellettuali di Parma e si dedicò alla scrittura dei suoi Diari. In questo modo incomincia a frequentare i magazzini dei raccoglitori dell’Appennino inizialmente spinto solo dalla curiosità, poi pian piano per comprare e salvare dalla distruzione gli oggetti delle case contadine e delle botteghe artigiane. Dagli anni Cinquanta fino agli Settanta, i rapporti con i fornitori si fecero sempre più intensi; raccoglitori, rottamai, antiquari della bassa cremonese e parmense, più di settanta, da un lato svolgevano le loro attività di recupero e rivendita come reazione alla povertà, dall’altra erano incentivati proprio dallo stesso Guatelli, che acquistò 60.000 pezzi, a recuperare oggetti di scarso valore, che non trovano posto nel mercato dell’antiquariato. In modo spontaneo, venne a crearsi una vera e propria squadra di raccoglitori, che aveva l’obiettivo di salvare mobili, ferri, attrezzi, utensili, ma anche stracci e scarti della lavorazione alimentare dall’oblio. «Tutti sono capaci di fare un museo con le cose belle, più difficile è crearne uno bello con le cose umili come le mie».

Nel frattempo nel 1968 vinse il concorso per diventare insegnate alle scuole elementari, professione che svolse fino al 1977, quando andò in pensione. Proprio negli anni Settanta, Guatelli iniziò a acquisire consapevolezza sul proprio lavoro di ricercatore locale e la sua raccolta iniziò a suscitare interesse tra gli abitanti della zona, ma anche tra le istituzioni. Da questo momento in poi, fino alla morte avvenuta nel 2000, l’uomo si dedica a capofitto al suo progetto, raccogliendo oggetti, accogliendo visitatori e riallestendo continuamente le stanze: la sua opera museografica prese forma.

«Il museo dell’ovvio», così era solito chiamare Guatelli la sua collazione di oggetti ordinari e banali, la cui unicità non era data dalla loro preziosità economica, ma dall’uso quotidiano che uomini e donne comuni ne avevano fatto e su cui avevano lasciato una propria impronta. Gli oggetti custoditi nel museo sono testimonianze della vita contadina, l’unica, secondo Guatelli, capace di mettere in profonda connessione l’uomo con la vita: raccontano fisicamente storie e antichi saperi che tradizionalmente venivano trasmessi oralmente. Il suo museo è una miniera di memorie contadine semplici, ma ricche di significati, perché costituiscono il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro. «Io vorrei un museo dall’estremo ieri all’estremo domani» era questa il sogno di Ettore Guatelli.

Nel 2003 il Museo è diventato una Fondazione, la cui missione è quella di gestire l’eredità di Guatelli e valorizzare il suo patrimonio, raccontandolo al pubblico contemporaneo con semplicità, emozionalità e creatività.


Stanze del Museo Ettore Guatelli

Vinili per l’umanità: Zero Freitas

«We hope people will be able to select records through our collection and listen to the music. The relationship people have with certain songs is subjective and personal. I want to share this with people and make it possible for them to recall their memories.» (Zero Freitas).

La passione talvolta diventa ossessione e l’ossessione può sfociare in una vera e propria mania da 6 milioni di vinili. Questa è la storia dell’imprenditore brasiliano Zero Freitas, che oggi è l’uomo che possiede la collezione di dischi più ampia al mondo.

La sua compulsione nell’acquistare vinili nasce dall’infanzia: infatti sin dalla tenera età Zero è appassionato di musica e a 5 anni suo padre gli regala il suo primo stereo; in poco tempo aveva già 200 album. Comprò il suo primo vinile nel Dicembre 1964, una versione di Canta Para a Juventude di Roberto Carlos, uno dei cantati più famosi in Brasile al tempo. Subito dopo vennero gli LP dei Beatles, dei Rolling Stones, di Ray Charles, di Frank Sinatra, di Tony Bennett, di Doris Day e di molti artisti brasiliani del movimento musicale Tropicalia. Quando terminò le scuole superiori il ragazzo possedeva già 3.000 dischi. Dopo il diploma, Zero decise di lavorare per l’impresa di famiglia, che possedeva una linea privata di bus; l’attività nei dieci anni successivi crebbe sempre di più e l’imprenditore si arricchì notevolmente.

 A 30 anni l’uomo possedeva circa 25.000/30.000 vinili, che oramai invadevano casa, tanto che doveva custodirli in camera della figlia. Forse è proprio per questo motivo che la moglie gli chiese il divorzio, e da questo momento in poi i suoi acquisti si fecero sempre più intensi, diventando una vera e propria sindrome, tanto che lo stesso Freitas ha ammesso che da anni va in terapia per cercare di capite il motivo di questa sua ossessione compulsiva, ma non l’ha ancora trovato.

Quella di Zero Freitas, però, non è una semplice passione fine a se stessa, ma un obiettivo ben più ambizioso: recuperando, raccogliendo e conservando i vinili, vuole preservare la memoria, perché la musica è la sola capace di evocare ricordi, che sono unicamente personali e soggettivi. Per l’uomo, i vinili custodiscono la storia, salvano la memoria dall’oblio e sia la melodia che l’immagine della copertina ci portano indietro nel tempo, ricordandoci la versione infantile di noi stessi e le emozioni annesse.

La sua ricerca si concentra soprattutto nel recupero della musica del suo Paese, perché è facilmente disperdibile; mentre, infatti, la cultura Occidentale, specialmente quella americana, ha sviluppato una sorta di culto della memoria, che ha facilitato la digitalizzazione della musica, che copre almeno 80%, in Brasile, invece, la musica digitalizzata arriva al 20%. Dunque, la maggior parte della musica tradizionale brasiliana, ma anche quella africana e sudamericana, è destinata a passare nel dimenticatoio.

Spesso, la gente pensa che la musica digitale abbia una risoluzione auditiva qualitativamente migliore rispetto a quella su formato fisico, ma per Freitas è diverso «the digital is useful but people get more emotional while listening to the analogue source. The sound is dirtier but warmer. The meaning of vinyl has thus shifted from poor to rich».

Negli anni Freitas ha accumulato migliaia e migliaia di vinili, recuperandoli all’interno del mercato di seconda mano, nei negozi specializzati e collaborando con numerose università: oggi possiede quasi 6 milioni di 33 giri, che acquista con una media di 500 al giorno. I dischi sono custoditi in un magazzino di 2.000 metri quadri e il collezionista è affiancato da un team di 12 persone che gestiscono gli acquisiti e si occupano dell’igienizzazione e catalogazione dei vinili.

Sembrava essere solo una personale ed un po’ folle ossessione, ma è diventata un vero e concreto fenomeno culturale: infatti, l’obiettivo di Freitas è quello di creare un archivio di vinili mondiale dal nome «Emporium Musical». Il progetto ha il supporto e anche la collaborazione della Columbia University e lo scopo è quello di creare una grandissima discoteca aperta a tutti, dove le persone possono ascoltare liberamente la musica: un luogo dedicato non solo all’ascolto delle note musicali, ma anche dei ricordi e delle emozioni.

Freitas, però, non si considera un collezionista e cerca di avere pochi contatti con i collezionisti del settore, perché la maggior parte di loro sono persone pazze e noiose.

Inoltre, l’uomo non pensa ai vinili come un qualcosa che gli appartiene, perché i suoi 33 giri appartengo a tutti noi, sono a disposizione dell’umanità intera e destinati a durare; infatti, il vinile è un supporto molto resistente e, se conservato lontano dalla luce del sole e a una temperatura controllata, è in grado di mantenersi integro per sempre.

Quella che sembrava essere una malattia si è trasformata in una incredibile operazione dalla portata storica e culturale, e quella di Zero Freitas è la storia di un uomo, che davanti ad un vinile è capace di emozionarsi come un bambino, e che è riuscito a trasformare le proprie emozioni in un patrimonio collettivo mondiale.



Sulle tracce di Milagros Caturla

Nel 2001, il turista americano Tom Sponheim, venuto in visita a Barcellona con la moglie, decise di passeggiare per le bancarelle del mercato delle pulci di Els Enchants, in prossimità della Sagrada Familia, quando vedendo in bella vista una busta piena di negativi fotografici venne catturato così tanto da comprare l’intera pila, per soli 3,50 dollari. Tornato a casa, l’uomo iniziò a scrutare ogni immagine e vedendo che erano di una certa qualità, decise di scannerizzarle una per una. Si trattava di alcune inedite fotografie in bianco e nero, che rappresentavano scene di vita quotidiana della Barcellona degli anni ’60. La maestria delle inquadrature e della tecnica era così impeccabile che l’acquirente americano si ripromise di scoprire l’identità dell’artista. Nel 2010, Tom aprì una pagina su Facebook per scoprire se qualcuno conoscesse il fotografo o sapesse identificare i soggetti delle fotografie ed, in effetti, diversi utenti riconobbero alcuni dei protagonisti, ma nessuno l’autore.

Nel 2017, l’artista Begoña Fernández venne a conoscenza delle fotografie viste sulla pagina Facebook ed, ammirandone la bellezza, si propose di aiutare l’uomo nella ricerca per risolvere il mistero. Dopo accurate analisi, la donna riuscì a scoprire la scuola elementare, che spesso era di sfondo nelle fotografie e risalì poi ad un annuncio del 1962, che parlava di un concorso fotografico lanciato dall’Agrupació Fotográfica de Catalunya, una storica associazione di fotografia. Trovando poi, un vecchio giornale su cui erano esposte alcune fotografie del concorso del 1961, notò molti aspetti in comune con le immagini del mercatino ed una in particolare corrispondeva alla perfezione.

Si trattava dello scatto vincitore del quarto premio, una fotografia rappresentante un’anziana signora con il rosario in mano ed immersa nella preghiera dal titolo «Fervor».

Così, si scoprì che l’autore delle fotografie era in realtà un’autrice, probabilmente Milagros Caturla, un’insegnante appassionata di fotografia, che in quegli anni vinse numerosi concorsi fotografici per la sua maestria innata di catturare pienamente la vita quotidiana delle persone.

La vicenda di Caturla andava assolutamente condivisa ed è iniziata così la collaborazione tra Tom Sponheim con l’artista Fernández per mostrare la collezione ad un vasto pubblico. Nel maggio 2017 il lavoro fotografico è stato esposto al festival Revela-T che si tiene ogni anno a Barcellona. Oggi l’artista viene anche chiamata «la Vivian Maier di Barcellona» in quanto la sua vicenda ricorda per molti aspetti quella della misteriosa fotografa newyorkese ed il suo lavoro merita di essere preservato nel tempo, come la collezione Maier,  per non permettere di dimenticare queste donne mai più.

“Fervor”, fotografia scattata da Milagros Caturla nel 1961

Chi è Vivian Maier?

Vivian Maier

La storia di Vivian Maier è una vicenda incredibile. Un vero colpo di fortuna per quest’artista che in vita ha cercato sempre di rimanere nascosta dietro la sua macchina fotografica, ma quando ormai dimenticata da tutti il suo ricordo ha voluto palesarsi sotto forma delle sue stesse fotografie, che sono state ritrovate per pura casualità da un giovane americano. La vicenda prende vita grazie a John Maloof, un giovane agente  immobiliare che nel 2005, trasferitosi a Chicago, iniziò ad interessarsi alla storia di questa città. La sua passione per i beni culturali e storici del luogo lo portarono ad entrare a capo della Northwest Chicago Historical Society, la società storica di quartiere, che organizza incontri, tour ed eventi aperti a tutti i cittadini con lo scopo di educarli alla storia locale. Maloof, per incrementare il lavoro di divulgazione sulla storia di Chicago, che spesso passava inosservata rispetto ad altre città americane, decise di collaborare con lo scrittore Daniel Pogorzelski per scrivere il libro intitolato «Portage Park» pubblicato nel 2008, in cui si racconta di posti inediti e ricchi di storia situati nella città. Per accompagnare lo scritto erano necessarie foto ben fatte, che riproducessero la vecchia Chicago; precisamente l’editore ne richiese quasi 220. I due scrittori impiegarono quasi un anno nel cercare incessantemente tutte le fotografie vintage necessarie e proprio in quel periodo, nel 2007, Maloof si rivolse anche alla casa d’aste della città, la RPN, sperando di trovare materiale utile, e fu proprio così. Gli venne mostrato uno scatolone pieno di negativi riguardanti la Chicago degli anni ’60, che era stato ritirato a seguito di uno sgombero di un magazzino, ed il giovane decise di acquistarla per 380 dollari.

I rullini non si rivelarono interessanti ai loro occhi inesperti, ma dopo un po’ di tempo dalla pubblicazione del libro, Maloof decise di riguardarli attentamente ed iniziò ad appassionarsi alla fotografia. Prese in mano la macchina fotografica dilettandosi ad immortalare la città, prendendo a modello proprio quei negativi così tecnicamente perfetti. Quelle immagini riecheggiavano in lui un forte fascino tanto da ossessionarlo: voleva conoscere tutta la storia, che si nascondeva dietro a quelle foto e a quel misterioso fotografo. Iniziò allora a ricercare tutto il materiale possibile risalente a quell’enigmatico artista ricavandone una collezione di circa 150 mila negativi, 3 mila stampe, centinaia di filmati, video, interviste audio ed oggetti vari. Grazie ad alcune fotografie autoritratto, Maloof scoprì il volto del tanto atteso fotografo, una fotografa per l’appunto: Vivian Maier.

La fotografa era nativa di New York e dopo aver passato l’infanzia in Francia, era tornata negli Stati Uniti per lavorare, ma essendo priva di titoli di studio trovò impiego solo come commessa, operaia e poi bambinaia. Durante gli anni ’50, Maier ereditò un discreto compenso da parte di una zia defunta e comprò così la sua amata Rolleiflex, dedicandosi quotidianamente alla sua più grande passione, la fotografia, e racchiudendo nei suoi rullini una fantastica storia della vita cittadina americana, in particolare a Chicago e New York. L’intento della Maier era quello di documentare la vita delle persone e dei luoghi che la circondavano, foto dei bambini che curava, delle abitazioni e delle persone che incontrava per strada.

Dal 2007 in poi, Maloof iniziò a contattare anche le famiglie dei bambini, che erano stati accuditi in passato da Vivian, recuperando tanto altro materiale lasciato dalla donna nelle varie abitazioni; solo qualche anno dopo si  scoprì  che la fotografa in quel periodo era ancora in vita, anche se molto anziana, malata e povera. Proprio per via dei problemi economici, la donna vacava tra i senzatetto ed un vecchio bilocale poco conosciuto, nascondendo le proprie tracce. Ciò che le importava di più erano le sue duecento scatole ricolme di materiale documentario creato fino a quel periodo e per questo affittò un box in cui depositare tutto il suo lavoro; nel 2007 fu costretta a cedere il suo tesoro fotografico per via di un mancato pagamento e per questo le scatole vennero date alla casa d’aste RPN. Grazie alla pubblicazione del blog dedicato all’immensa collezione ritrovata da Maloof, con il tempo, il lavoro della Maier ha riscosso sempre più successo e intorno a lei si creò un vero e proprio mito, tanto che lo stesso Maloof realizzo un film-documentario dal titolo «Finding Vivian Maier». Purtroppo il giovane regista scoprì troppo tardi che l’artista durante tutti quegli anni di ricerca era ancora viva, ma quando provò a contattarla ormai era troppo tardi: il 21 aprile del 2009 Vivian Maier morì. Oggi, la Collezione Maloof è diventata famosissima, portando in tutto il mondo il grandioso lavoro della fotografa ritrovata, con l’obiettivo di promuovere e di salvaguardare questo patrimonio artistico per le generazioni future, ma la vera storia della fotografa-bambinaia rimarrà per sempre un mistero: chi era Vivian Maier?


Un semplice disegno può valere oro

Questa è la fortunata vicenda di un anonimo ricercatore e commerciante d’arte, che nel 2018 ha acquistato un bellissimo disegno per pochi dollari presso un negozio di seconda mano no profit affiliato con l’organizzazione Habitat for Humanity nel Queens, a New York, scoprendo che non si trattava di un semplice disegno qualsiasi. L’uomo decise di comprare il disegno proprio perché gli aveva ricordato il forte tratto caratteristico del grande pittore Egon Schiele. Il disegno era uno schizzo a matita raffigurante una giovane donna sdraiata a terra nuda e magra, probabilmente una delle tante ragazzine che il pittore aveva l’ossessione di disegnare.

Nel giugno 2018, l’opera è stata portata subito dall’esperta d’arte e gallerista Jane Kallir, direttrice della Galerie St. Etienne, a New York ed autrice di uno dei primi cataloghi di schizzi ed acquerelli del pittore. La donna dopo accurati sguardi aveva già capito che si trattava di un originale e dopo altre analisi, durate un anno, è stato stabilito che era proprio un autentico disegno del famoso espressionista austriaco. Si ritiene che l’opera potesse appartenere ad una serie di 22 schizzi a matita di nudo sdraiato, che Schiele realizzò nel 1918, proprio pochi mesi prima di ammalarsi gravemente e morire di febbre spagnola. La sessione di nudo è talmente riconoscibile e precisa che si è potuto ricollegare allo schizzo altri due elaborati che vennero probabilmente usati come materiale preparatorio per realizzare la litografia «Mädchen» stampata solo quattro anni dopo la prematura morte. L’opera è stata valutata fra i 100 mila e i 200 mila dollari e dal 16 giugno all’11 ottobre 2019 è stata esposta nella Galerie St. Etienne, all’interno dell’esposizione «The Art Dealer as Scholar». Il proprietario ha voluto rimanere anonimo all’interno della vicenda e ha dichiarato che è disposto anche a vendere il disegno e di voler donare parte del ricavato all’associazione Habitat for Humanity.

Ragazza nuda sdraiata, Egon Schiele

Lo schizzo ritrovato di Andy Warhol

Un weekend d’aprile del 2010, il collezionista quarantottenne, Andy Fields, residente nella cittadina inglese di Tiverton della contea del Devon, Regno Unito, fece uno straordinario affare. L’uomo, in compagnia di un amico, era partito per un tour per la città di Las Vegas alla ricerca di privati con cui fare affari. Dopo una prima perlustrazione, capitarono a casa di un privato nel nord-ovest della città, il quale svendeva diversi oggetti e quadri lasciati accatastati nel vecchio garage. Vedendo la grande quantità di opere d’arte, Andy, da sempre appassionato d’arte, si lasciò ispirare dalla bellezza di alcuni dipinti ad olio, che acquistò a forfait negoziandone il prezzo con il venditore e per soli 5 dollari in più si fece dare anche alcuni schizzi, che notò impilati su un armadietto.

Durante una lunga e piacevole conversazione con il venditore, Milton Longe, i due amici scoprirono che l’uomo era un amico d’infanzia del grande pioniere della Pop Art, Andy Warhol. La zia del venditore, Edith Smith, era molto amica della madre dell’artista e spesso accudì il piccolo Warhol quando aveva bisogno. Gli amici entusiasti dell’acquisto, non immaginavano ciò che avrebbero trovato. Quando iniziarono a scrutare ed analizzare tutti i vari pezzi d’arte acquistati, che non erano propriamente in ottime condizioni, Andy scovò uno straordinario ed inaspettato schizzo all’interno della cornice malandata di una foto originale di Gertrude Stein. Il foglio rappresentava uno schizzo del volto del cantante ed attore degli anni ’30, Rudy Vallee e presentava sul lato la firma scarabocchiata «Andy Warhol». Il collezionista si ricordò subito della storia raccontata dal signor Longe, deducendo che si poteva trattare di un originale dell’artista Pop. La Stein, una modernista mercante e scrittrice d’arte della prima metà del Novecento, aveva probabilmente nascosto lo straordinario schizzo nella cornice di una fotografia per proteggerlo e custodirlo nel tempo.

L’opera  venne poi fatta verificare da alcuni esperti, che stabilirono che si trattava di un raro schizzo realizzato da Andy Warhol quando era ancora un ragazzino di 10-11 anni. Brett Maly, un perito d’arte per Art Encounter a Las Vegas, nel 2011 valutò l’opera per 1,3 milioni di sterline, anche se non è ancora ben chiaro come sia possibile che l’artista già ai tempi si fosse firmato come «Warhol» e non come «Warhola», in quanto avrebbe cambiato nome d’arte solo nel 1949, mentre lo schizzo risalirebbe alla fine degli anni‘30.

Andy Fields dichiarò di aver portato l’opera anche all’Andy Warhol Authentication Board, per difendersi dalle accuse ricevute da Gary Comenas di Warholstars, il quale , invece, sosteneva che si trattasse di un falso. Fields  rispose alle critiche facendo notare che Warhola, già anni prima di cambiare definitivamente il suo nome d’arte, utilizzava lo pseudonimo «Warhol» e per verificare l’autenticità della scritta ci sarebbero volute più di quindici firme di confronto, in quanto l’artista era solito cambiare spesso grafia. Nel 2013 la famiglia Warhol ha reso visibili altri schizzi realizzati dall’artista ancora bambino, rafforzando la tesi dell’originalità del disegno ritrovato per via di una forte affinità di composizione, tecnica e carta usate. Oggi, la questione è ancora aperta e l’opinione degli esperti è contrastante; Fields ha deciso di non vendere l’opera in quanto fiero della propria scoperta, ed è deciso e desideroso di esporlo in un museo così che tutti possano beneficiare ed ammirare la rara opera del grande Andy Warhol. La Royal Academy of Art di Bristol è stata una delle prime gallerie ad aver esposto l’opera per circa 4 mesi.

Andy Fields con schizzo di Andy Warhol
Ritratto di Rudy Vallee  realizzato da Andy Warhol intorno agli anni ’30

Un tiro al bersaglio…che vale milioni

Teri Horton con l’opera di Jackson Pollock

Durante i primi anni ’90, l’americana Teri Horton, un ex’ camionista ormai in pensione dal 1987, residente nella sua casa mobile in Costa Mesa, California, è inaspettatamente diventata la protagonista dell’inedito ritrovamento di un capolavoro di Jackson Pollock. Teri dedicò gran parte del suo tempo a perlustrare negozi d’usato e cassonetti dell’immondizia, con la speranza di trovare oggetti da contrattare a Los Angeles ricavandone grandi affari. Mentre era alle prese con le ricerche in un negozio di seconda mano della zona di San Bernardino in California, la signora fu catturata dall’esposizione di un dipinto così particolare, che decise di acquistarlo con l’intento di utilizzarlo come divertente bersaglio per giocare al tiro con le freccette, pagandolo solamente 5 dollari. 

Un quadro di 66 per 48 pollici comprato per ludico diletto, che invece si rivelò un grande affare! Dopo poco tempo, la donna decise di rivendere il quadro nel 1992, ma quando incontrò un acquirente proveniente dall’Arabia Saudita, che era disposto ad offrire 9 milioni di dollari per il quadro, iniziò a capire che forse non si trattava di un semplice dipinto e rifiutò la proposta. Grazie ad un insegnante d’arte, la Horton venne a conoscenza che, probabilmente, si trattava di un’opera del grande Pollock, il famoso maestro dell’originale tecnica del dripping, che fece tanto parlare a suo tempo, ma che purtroppo l’ex camionista non conosceva minimamente.

La donna ricercò subito il parere di un esperto forense e di alcuni studiosi e commercianti d’arte, per verificare l’effettivo valore dell’opera. Il restauratore d’arte canadese Peter Biro esaminò con i macchinari tutta l’opera, scoprendo la presenza di un’impronta digitale impressa con la vernice sul retro del dipinto. L’impronta è stata poi confrontata con un’originale ricavata da una lattina di vernice ritrovata nello studio dell’artista a Long Island, dimostrando che si trattava proprio di uno dei capolavori di Pollock. Alcuni intenditori rimangono ancora dubbiosi sull’originalità del dipinto in quanto non presenta la firma dell’artista e non si conoscono informazioni storiche riguardanti esso.

Nel 2006, in seguito alla sorprendente vicenda, è stato prodotto il film documentario intitolato «Who the $&% is Jackson Pollock?», prendendo spunto dall’espressione utilizzata da Teri quando l’amico studioso d’arte le disse che poteva essere un Pollock. Grazie a questo documentario, la vicenda dell’ex camionista ha riscosso molto successo tanto che un vasto pubblico americano si è affezionato alla donna sostenendola sempre anche nei momenti di difficoltà economica, mentre dal 13 al 27 novembre, la Gallery Delisle di Toronto in Canada ha accettato di esporre l’opera con l’intento di aiutare Teri a venderlo per 50 milioni di dollari, ovvero, il prezzo stimato da alcuni esperti.

Nonostante le grandi difficoltà finanziarie della famiglia Horton, il dipinto è rimasto invenduto fino al 2018, in quanto la donna ha sempre rifiutato le offerte ricevute aspettando quella adeguata all’effettivo valore dell’opera e prediligendo acquirenti americani. Purtroppo, l’8 luglio 2018 la donna è deceduta per via di un cancro lasciando l’opera nelle mani del figlio e riscuotendo un forte dispiacere nel suo pubblico che si è subito radunato intorno alla famiglia. Bill Page, il figlio della Horton, ha dichiarato che non seguirà la battaglia della madre, ma che sicuramente lo venderà ad un prezzo adeguato con lo scopo di agevolare finalmente la vita economica della famiglia, come in fine dei conti desiderava anche Teri.

Dripping di Jackson Pollok

Affari di famiglia

Nel novembre del 1951 il capolavoro intitolato «Paysage Bords De Seine» dipinto dal grande Pierre-August Renoir scomparve misteriosamente da una collezione del Baltimore Museum of Art (BMA), nello stato del Maryland, Stati Uniti. Era un piccolo dipinto ad olio di 5 pollici e mezzo per 9 pollici, che il maestro impressionista dedicò alla sua amante nel 1879. L’opera, inizialmente, era stata esposta alla galleria Bernheim-Jeune di Parigi e nel 1926 venne acquistata dai ricchi collezionisti Sr. Herbert L. e Sig. Saidie Adler May.

Dopo la separazione dei due coniugi, il dipinto rimase tra i possedimenti della signora May, che era una fervida appassionata d’arte francese ed americana del XIX-XX secolo e che dedicò tutta la vita al collezionismo di straordinari capolavori d’arte acquistati nelle più importanti gallerie europee del tempo. Grazie a Saidie, l’arte di grandi artisti europei come Picasso, Andre Masson o Marc Chagall, è potuta approdare anche nei musei Americani, portando nuove influenze artistiche e contribuendo alla creazione dei musei internazionali odierni.

Nel 1937 decise di prestare il dipinto di Renoir al Baltimore Museum of Art con lo scopo d’incrementare l’educazione pubblica all’arte, l’obiettivo prioritario della sua carriera di collezionista. A questo proposito, la donna scelse di lasciare nel proprio testamento parte del patrimonio artistico al BMA ed è sconvolgente sapere che proprio sei mesi dopo la sua morte, nel 1951, il bellissimo dipinto di Renoir, ormai legalmente in possesso del museo, venne rubato.

Negli anni, la famiglia May accusò più volte il BMA di non salvaguardare adeguatamente la collezione donata, rimanendo anche amareggiata nel vedere che molti pezzi d’arte non venissero esposti al pubblico. Susan Helen Adler, una lontana nipote della signora May, ha voluto riportare in vita l’incredibile storia della sua anziana prozia scrivendo da autodidatta una biografia di 300 pagine intitolata «Saidie May: Pioneer of Early 20th Century Collecting» e pubblicata nel 2011.

Durante l’ardua ricerca durata ben dodici anni, la nipote non avrebbe mai immaginato di scoprire così tanti segreti riguardanti la collezione May ed il Museo di Baltimora. Si venne a conoscenza che alcuni capolavori della collezione erano stati venduti per acquistare nuove opere d’arte da esporre nel museo, e che in passato la collezione subì altri furti, che vennero però tenuti nascosti alla famiglia May. Il museo aveva sempre rassicurato i famigliari, sostenendo che nel tempo i sistemi di controllo adottati fossero migliorati drasticamente, ma ciò non giustificava i furti subiti in passato.

Grazie ad un diario di Saidie ed alcuni documenti archiviati nella biblioteca del BMA, Susan scoprì informazioni sul Renoir prestato dalla prozia negli anni’20. Il dipinto era stato rubato nel 1951 durante l’esposizione sull’arte francese, ma dopo essere stato perso non se ne ebbe più traccia, tanto che il BMA dichiarò di essersi completamente dimenticato nel tempo di tale furto. Una vicenda poco chiara e con molti scheletri nell’armadio, ma che ha avuto il lieto fine nel 2012 grazie ad una misteriosa signora che si fa chiamare «Renoir Girl» per rimanere in anonimato.

La signora nativa di Baltimora, dichiarò di aver acquistato il quadro nel 2010 al mercatino delle pulci «Harpers Ferry Flea Market» nella Shenandoah Valley in West Virginia. Passeggiando per le bancarelle, rimase colpita dalla sfarzosa cornice del quadro, che spiccava tra tanti altri vecchi oggetti accatastati in uno scatolone e venduti come unico lotto per meno di 50 dollari. La donna acquistò lo scatolone, ma solo dopo qualche anno riguardò il quadro; quando lo stava per smontare per ricavarne la cornice, la madre la convinse di farlo prima valutare da Anne Norton Craner, esperta d’arte della casa d’aste Potomack Company, scoprendo che si trattava di un Renoir originale!

L’ opera sarebbe stata battuta all’asta per circa 100 mila dollari se non fosse stata sequestrata dall’FBI per via delle indagini sulla vicenda. Il capolavoro è stato sequestrato dalle autorità per via degli accertamenti e dopo anni, nel 2014 si stabilì che l’opera appartenesse al Baltimore Museum of Art e fu riconsegnato alla struttura. Oggi, il dipinto è di nuovo esposto nella sezione dedicata alla collezione May e dopo 60 anni è finalmente tornato al posto in cui la signora Saidie avrebbe desiderato.

«Paysage Bords De Seine» (fonte: Renoir, 1879, Baltimore Museum of Art